mercoledì 19 novembre 2008

Il deserto risale lo stivale

di Valentina Robbiati, tratto da Green Cross Italia


È allarme:
la desertificazione minaccia anche la Pianura del Po e l'Emilia Romagna.

"Siccità e desertificazione minacciano la sopravvivenza di un quinto della popolazione mondiale - più di un miliardo di persone - e hanno portato alla riduzione dello strato superficiale del suolo e della sua capacità produttiva in un terzo della Terra (4 miliardi di ettari)".
Sono questi i numeri emersi al convegno "Siccità e Desertificazione" tenuto a Rimini nel novembre 2004 e organizzato da Regione e Arpa Emilia-Romagna per fare il punto sul monitoraggio della desertificazione e della siccità nel bacino del Mediterraneo.

Il concetto di "Desertificazione"
La disponibilità di riserve idriche è fondamentale per l'ecosistema e per le attività primarie dell'uomo e gli eventi siccitosi possono avere un impatto rilevante sia sull'ambiente che sull'economia. La definizione più accettata di desertificazione è stata data dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione (UNCDD) dove viene definita come "degradazione del territorio in aree aride, semiaride e sub-umide secche dovuta a vari fattori, comprese la variazioni climatiche e le attività umane". Il concetto di degrado del territorio, che comporta un impoverimento delle qualità del territorio, va distinto da quello di desertificazione. Un'area desertificata perde, infatti, irreversibilmente la capacità di sostenere la produzione agricola e forestale (sterilità funzionale). Nelle regioni aride, semiaride e secche l'indice di aridità oscilla tra 0.05 e 0.65. Questo valore è dato dal rapporto delle precipitazioni annuali e il potenziale di evapo-traspirazione.

Un fenomeno di portata globale
La desertificazione nelle sue forme più intense interessa oltre 100 paesi minacciando la sopravvivenza di più di un miliardo di persone. La situazione è particolarmente drammatica nelle zone aride dove il 70% delle aree, corrispondenti a un quarto dell'intera superficie terrestre, risultano minacciate. Siccità e desertificazione dipendono principalmente dal clima, ma nei paesi del Mediterraneo settentrionale sono dovuti allo sfruttamento intensivo dei terreni e delle risorse idriche e perciò all'uso non sostenibile delle risorse naturali da parte dell'uomo. Si stima che circa 135 milioni di persone rischiano di dover abbandonare la propria terra a causa dell'avanzata del deserto. In Africa, nelle aree del Sahel, del sub-Sahara del Corno d'Africa, dove il processo è ancora più rapido si stima che circa 60 milioni di persone saranno costrette a migrare verso l'Africa del Nord e l'Europa entro il 2020.

Mediterraneo: zona di transizione
Il problema è molto presente anche nelle aree temperate. In questo contesto, il Mediterraneo rappresenta una zona di transizione dove le aree desertificate sono intervallate da quelle a rischio di desertificazione.
I paesi del bacino del Mediterraneo, infatti, negli ultimi anni sono stati interessati da una notevole riduzione delle precipitazioni. La degradazione del territorio nell'area mediterranea è spesso legata a pratiche agricole povere: in risposta ai pericoli naturali, alle siccità, alle inondazioni, agli incendi boschivi e alle attività umane i suoli diventano salini, aridi, sterili e improduttivi. L'abbandono dei campi successivo alla crisi agricola del nostro secolo ha ulteriormente aggravato la situazione e l'economia moderna contribuisce al problema: fertilizzanti, pesticidi, metalli pesanti, agricoltura intensiva e l'introduzione di specie vegetali esotiche invasive stressano incessantemente i nostri suoli.
A lungo l'agricoltura si e' trovata sul banco degli imputati quando si parla di desertificazione, "ma il degrado complessivo delle risorse ambientali e' dato dall'insieme delle attività produttive- sottolinea Massimo Iannetta responsabile del gruppo "Lotta alla Desertificazione" dell'Enea - oltre all'agricoltura ci sono il turismo, l'industria, l'attività estrattiva e l'urbanizzazione che concorrono al processo di desertificazione".
La scarsità di risorse idriche che ne è conseguita ha determinato una crescente sensibilità verso i problemi legati a fenomeni siccitosi che risultano particolarmente gravi nelle regioni a clima arido o semiarido in conseguenza della notevole variabilità delle grandezze idrometeorologiche e dell'elevato grado di sfruttamento delle risorse idriche disponibili.

La desertificazione avanza lungo l'Italia
La percentuale di territorio italiano a rischio desertificazione "e' stabile da un paio di anni al 30% -
continua Massimo Iannetta - la stima delle Nazioni unite del 98-99 era al 27%, ed è cresciuta arrivando al 30% nel 2003. Poi circa due anni di precipitazioni più abbondanti hanno stabilizzato, per ora, il dato".
Studi per mappare il rischio di desertificazione in Italia sono già stati condotti all'interno di progetti condotti su scale globale (Eswaran e Reich, 1998), continentale (progetto DISMED, 2003) e nazionale. Le immagini al satellite del bacino del Mediterraneo rendono un'idea dell'importanza del problema, ma gli studi che analizzano e sommano insieme il contributo del clima, del suolo, della vegetazione, e delle attività umane forniscono un quadro più completo e accurato della situazione territoriale italiana.


. Indice di aridità e stazioni meteorologiche in Italia


Le regioni a rischio

Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna mostrano il processo di desertificazione in stato avanzato. Anche le regioni del centro nord, in particolare Toscana ed Emilia Romagna, manifestano un peggioramento della situazione idrometeorologica e sono sempre più vulnerabili all'irregolarità delle precipitazioni. Il deserto avanza velocemente sulle fasce costiere e nelle zone collinari del Sud: l'analisi climatica del 2003 rivela una tendenza negativa della condizione idrometeorologica dell'Emilia Romagna: i valori dell'Indice di Precipitazione Standardizzato (SPI) segnalano che la regione negli ultimi 50 anni si è gradualmente impoverita di acqua nel terreno, tendendo ad assumere condizioni di moderata siccità, solo a tratti severa. In Emilia Romagna il consumo d'acqua dal 1975 al 2003 è passato da 1,882 a 2,125 milioni di metri cubi all'anno, con incrementi significativi soprattutto per uso agricolo (da 1,002 a 1,405 milioni di metri cubi) e civile (da 350mila a 487mila metri cubi).


Urbanizzazione e agricoltura intensiva sotto accusa
L'Istituto Sperimentale per lo Studio e la Conservazione del Suolo ha sostenuto la realizzazione di un nuovo atlante sul rischio di desertificazione in Italia: qualità del clima, del suolo e della vegetazione sono i 3 indici a cui gli scienziati dell'Agenzia Ambientale Europea hanno fatto riferimento per compilare una mappa con scala 1:250,000. Il dato più preoccupante è che la maggior parte della Sicilia, Puglia e sud della Sardegna hanno indici di aridità inferiori a 0.65, tipici dei territori desertici. Anche i suoli del Sud e parte del Centro Italia, la Pianura Padana e le Alpi sono minacciati da siccità e inaridimento. Nel nostro Paese, caratterizzato da un territorio fortemente antropizzato, l'estendersi dei processi di desertificazione è in rapporto diretto con la crisi delle città principali che ad un assetto tradizionale del paesaggio costituito da sistemi abitativi a forte compenetrazione naturale a basso consumo di risorse, sostituisce un modello basato sulla cementificazione massiccia, il dispendio energetico e l'inquinamento ambientale.
All'urbanizzazione di nuove aree corrisponde l'abbandono e l'esodo dei centri storici con la scomparsa di presidi territoriali capaci di una corretta gestione del paesaggio. Si determina un processo di desertificazione fisico e sociale. Al degrado architettonico, l'erosione dei sistemi montani, collinari e di pendio corrisponde il depauperamento delle risorse umane. L'emigrazione, la eredità di identità, la caduta dei valori sono aspetti socio culturali della desertificazione.

Monitorare e arginare il fenomeno: i progetti su scala nazionale e internazionale
Anche se siccità e desertificazione in Italia sono fenomeni che non hanno la drammaticità del continente africano o di alcune zone di Asia e America Latina, non sono da trascurare. La situazione è ancora sotto controllo, ma il fenomeno sta assumendo sempre più dimensioni generali e segnali negativi provengono dalla pianura bolognese e ravennate.
La Convenzione sulla lotta alla Siccità e alla Desertificazione delle Nazioni Unite (UNCDD), firmata a Parigi nel 1993 e ratificata in Italia nel 1997, rappresenta uno strumento giuridico internazionale che impegna tutti i paesi firmatari (190) a cooperare nella lotta alla desertificazione per attenuare gli effetti della siccità nei paesi gravemente colpiti con un approccio che migliori le condizioni di vita delle popolazioni locali.
Gli sforzi per combattere la desertificazione vengono intensificati a livello locale grazie allo sviluppo e all'attuazione dei Piani di Azione Nazionale (PAN), Sub-Regionale (SRAP) e Regionale (RAP) finalizzati alla riduzione delle perdite di produttività dei suoli causate da cambiamenti climatici e attività antropiche, da elaborare con quelli delle altre regioni. A questo fine, nel 1997, il Governo Italiano ha istituito presso il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, il Comitato Nazionale per la Lotta alla Desertificazione.

Alle radici del problema: una crisi idrica planetaria
"La Terra è minacciata dalla crisi dell'acqua" avverte la Banca Mondiale. All'inizio del '900, l'Umanità utilizzava circa 600 chilometri cubi di acqua. Oggi ne utilizza 6.000: dieci volte tanto. Negli ultimi dieci anni la popolazione umana è raddoppiata. Ma i consumi di acqua si sono quasi quadruplicati, tanto da sfiorare, ormai le capacità di riciclaggio della natura che, ogni anno, col suo ciclo idrogeologico, rende disponibile all'uomo da 9.000 a 14.000 chilometri cubi di acqua potabile. L'uomo ne utilizza i 40 - 65%, ma si calcola che nel 2050, quando la popolazione mondiale supererà i nove miliardi di persone, la domanda di acqua potabile potrebbe eguagliare, se non superare, l'offerta della Natura.
"E' ormai indispensabile dare un nuovo valore all'acqua - ha dichiarato al convegno di Rimini Guido Tampieri, assessore all'Agricoltura e all'Ambiente - occorre governare questi problemi tenendo conto della dinamica delle risorse, cioè della disponibilità dell'acqua, e non, come spesso accade, assecondando la dinamica della domanda. Bisogna rivedere la gerarchia dei bisogni; ridurre perciò i consumi d'acqua, consumare meno e meglio".

da http://www.greencrossitalia.it


Links:

http://www.unccd.int
http://www.soilmaps.it
http://www.desertification.it
http://www.desertnet.de
http://dismed.eionet.eu.int
http://www.soil-index.com/
http://www.arpa.emr.it
http://www.minambiente.it

lunedì 10 novembre 2008

Macroshift

Macroshift: il punto di biforcazione
Scegliere consapevolmente un futuro sostenibile per il nostro pianeta













Macroshift: Il cambiamento globale

Con il termine macroshift si intende il cambiamento globale, di pensiero e di vita, che una parte dell’umanità sta affrontando e che l’intera umanità dovrebbe scegliere sempre più consapevolmente nell’immediato futuro.


La crisi globale, ecologica,sociale e umana, impone una scelta tra infiniti futuri possibili. Lo Stato del Pianeta è drammatico, tutti i parametri di rischio ambientale, umano e politico - dal surriscaldamento alla sovrappopolazione alla militarizzazione – sono in costante peggioramento.

Non fare nulla significa accettare lo stato attuale e il futuro che comporta.
Dobbiamo scegliere il nostro destino, quello che veramente vogliamo: se continuare l’attuale sviluppo verso un futuro sempre più industrializzato, inquinato, militarizzato e senza rispetto per le minoranze e i paesi poveri, o scegliere un radicale cambio di rotta nella storia umana, un macroshift, una radicale trasformazione del modo di vivere, pensare, comunicare, cooperare ed evolvere insieme verso una civiltà planetaria.

Questo cambiamento e già in atto in ogni stato del mondo con i “creativi culturali” e la nuova cultura emergente, anche se ancora in modo sommerso, minoritario e quindi poco influente nelle decisioni politiche, economiche, sociali, belliche, ecologiche.

Il termine macroshift è stato proposto dal Prof. Ervin Laszlo, filosofo della scienza dei sistemi e promotore della coscienza planetaria, presidente del Club di Budapest e già docente in rinomate università statunitensi ed europee, che ha da pochi mesi pubblicato negli Stati Uniti il libro "Macroshift, cavalcare la trasformazione" che – per l’attualità del tema, anche in relazione alle ansie internazionali per l’incerto futuro collettivo - è già stato tradotto in nove lingue. Il concetto di macroshift è di fondamentale importanza per comprendere in modo articolato e reale le differenti dimensioni di questo fenomeno planetario e dei suoi possibili sviluppi economici, sociali, spirituali.

Gran parte della nuova intelligenza planetaria si sta muovendo in questa direzione, per stimolare una crescita umana, un’evoluzione della coscienza globale.


La crisi terminale
Quella di oggi non è una crisi morale, non è una crisi economica, sociale, assolutamente no: è una crisi evolutiva. (Satprem)

Fino ad ora, la logica del rinnovamento è stata essenzialmente a carattere spontaneo e intuitivo. Non esiste ancora una consapevoleza unitaria di ciò che sta accadendo e certamente questo posssibile futuro rappresenta una sfida alla consapevolezza umana.
È possibile considerare questa crisi planetaria come la crisi terminale del vecchio sistema che ancora in gran parte è presente, come condizionamento inconscio, in ognuno di noi. Tutti siamo nella crisi, tutti dobbiamo rallentare e trasformarci. Non è più possibile continuare sulle attuali anacronistiche linee di sviluppo orientate al possesso e al consumo.
Lo sviluppo materiale ha raggiunto il suo massimo storico, ora è necessario un differente tipo di sviluppo: lo sviluppo delle potenzialità umane. Wei Ji, l’ideogramma cinese che significa “crisi”, è composto da due segni, il primo significa “attenzione, pericolo” e il secondo “opportunità di cambiamento”. Questa crisi globale ci spinge ad una trasformazione globale.
E' necessario un salto evolutivo, non sociale ma individuale. Si rende necessaria una drastica apertura verso nuove e inesplorate visioni del mondo che nascono da differenti esperienze del vivere e dell’essere.


Il punto di biforcazione
Sono molto pessimista sul futuro dell’umanità... forse l’uomo ha terminato il suo cammino, allora è bene che lasci il posto ad un essere più evoluto. (Indira Gandhi)

Ogni analisi fino ad ora formulata sulla situazione attuale del nostro pianeta rivela che di fatto si stanno scontrando due grandi tendenze, due differenti visioni del mondo. Il nostro pianeta, inteso come sistema, si trova di fronte ad un "punto di biforcazione".

Lo stato attuale è di estremo squilibrio e turbolenza sia dal punto di vista ecologico che sociale e quindi il pianeta, come ogni "struttura dissipativa" dovrà confrontarsi con una necessaria scelta tra futuri possibili: o subire questo flusso di energie e informazioni caotiche e disgregarsi, o agire in modo unitario, integrando le energie e informazioni attuali in un livello di equilibrio più elevato e stabile.

Le ragioni di questo enorme aumeno di energia e informazioni è dovuto all'incredibile sviluppo tecnologico-industriale del secolo scorso e alle sue ripercussioni di enorme aumento della produzione, del denaro circolante, dell'inquinamento, dell'informazione, della comunicazione, dell'educazione, della mobilità delle persone tra nazioni, dell'apertura e conseguente destabilizzazione degli antichi sistemi culturali, etnici o religiosi che per millenni sono vissuti isolati gli uni dagli altri.
Il punto di biforcazione è una sfida all'intelligenza e alla consapevolezza planetaria. Una scelta e una sfida che, olograficamente, viviamo dentro di noi.



Le due culture
Ciò che ci aspetta non è una lotta politica, ma una guerra interiore dell’umanità, che si svolge dentro ogni individuo tra l'inconsapevolezza collettiva e la consapevolezza globale.

Dentro di noi si muovono due forze, la prima è dovuta all'imprinting della vecchia cultura patriarcale che ha dominato il pianeta per migliaia di anni, istintiva, basata sul potere dell’uomo sull’uomo, sul possesso dei figli e della terra, sul nazionalismo e sull’identificazione con il proprio gruppo, razza e religione. Questa cultura è basata sulla divisione dell’esistenza in sacro e profano, in bene e male, in materia e coscienza, essa ha diviso il pianeta in stati, religioni, classi e partiti, ha separato l’uomo in psiche e soma, e ha diviso tra loro scienza, arte e spiritualità, allontanando la conoscenza scientifica dalla conoscenza sacra.
Cultura rigida, settoriale, prepotente e fanatica, che tende al condizionamento e al controllo totale delle persone come della società, che si basa sulle direttive di una certa ideologia, fede o principio divino e che lo impone agli altri. Che poi venga chiamato indottrinamento politico, proselitismo religioso o, più semplicemente, il buon nome della famiglia, non cambia la struttura di fondo.

La seconda forza che sta emergendo lentamente dentro di noi è una nuova consapevolezza, alimentata da un’esperienza unitaria di se stessi e da una presa di coscienza globale dell'esistenza e dei problemi del pianeta.
Questa forza si manifesta nella nuova cultura olistica, ancora in germoglio ma con millenni di storia alle spalle, intuitiva, confusa, umana, verde, transculturale, rispettosa della natura e delle minoranze, colorata, trasgressiva, che si fonda sulla bellezza, sui diritti, sull’unità tra corpo, mente e anima, sulla sacralità della vita in ogni suo aspetto. Cultura flessibile e femminile, che per millenni è stata repressa e soffocata anche nel sangue e che solo da alcuni decenni riesce a far sentire la sua voce e le sue ragioni.

Il fatto che queste due forze siano entrambe dentro di noi, spiega l'origine di molti conflitti.
Nella maggior parte delle persone, prevale con decisione la prima forza imponendo un regime di dittatura o monarchia interiore che non lascia spazio ad altre voci o posizioni. In un numero sempre maggiore, le due forze si alternano o si scontrano in un equilibrio instabile, come in una sorta di prima repubblica interiore, più o meno democratica, in continua crisi di governo. In una minoranza, ancora esigua, inizia a prevalere con chiarezza la seconda forza, è lo stato dell'unità, della pace, del senso del bene comune che potremmo anche chiamare meritocrazia interiore, un modello politicamente ancora sconosciuto.
Da queste due profonde correnti di tendenza che si stanno variamente intrecciando e scontrando si sviluppano cambiamenti sociali, culturali e individuali di enorme portata, ma dal futuro ancora imprevedibile.


Le due curve di tendenza
Queste due tendenze possono essere raffigurate con maggior chiarezza con due curve.
Possiamo chiamare la prima curva della "salute planetaria", che riassume in sé i principali valori di benessere-malessere ecosistemico (equilibrio demografico-sovrappopolazione, protezione delle aree ecologiche-industrializzazione, purezza-inquinamento di acqua, terra e aria, rimboschimento-desertificazione, protezione-estinzione di spesie viventi, blanciamento-innalzamento della temperatura globale, ecc.), e la seconda curva di “coscienza planetaria”, che riassume in sé i principali valori umani (pace, qualità della vita, rispetto dei diritti umani, libertà, salute e prevenzione globale, educazione aperta, sviluppo del potenziale umano, evoluzione spirituale, informazione reale).
Si assume che in un pianeta equilibrato, ossia dove gli esseri che costituiscono la mente planetaria sono in stato di unità ed equilibrio, queste due curve dovrebbero seguire un andamento quasi parallelo; ogni processo di aumento di coscienza dovrebbe infatti corrispondere ad un analogo processo di miglioramento della qualità ambientale/ecosistemica globale e viceversa. Sul nostro pianeta purtroppo non è così.
La vecchia cultura continua ad anteporre la propria necessità egoistica a qualsivoglia reale necessità ecosistemica, la curva della salute planetaria, per via di questa inconsapevolezza generale, sta scendendo paurosamente, portandoci sempre più vicino a situazioni di catastrofe globale, ossia di irreversibilità.

La curva della “coscienza planetaria” negli ultimi decenni ha mostrato un rapidissimo aumento, studi statistici evidenziano come il numero di persone che si orientano verso la cultura olistica si raddoppi ogni tre-quattro anni circa; questa rapida crescita potrebbe creare, in poco tempo, un processo di trasformazione sociale che ancora non siamo in grado di prevedere.
Oggi tuttavia il numero totale delle persone "coscienti" è ancora troppo limitato e quindi debole nel suo impatto sociale, politico e ambientale. Diventa così necessario aspettare che il suo incremento arrivi a trasformare una parte significativa di popolazione.

Nei prossimi anni è necessario che l’attuale curva di tendenza al degrado ecosistemico mondiale si inverta e che la curva di crescita di una nuova coscienza emerga, cambiando radicalmente il nostro presente e il nostro futuro.

fonte: Nitamo Federico Montecucco Tratto dal libro: “Cyber la Visione Olistica” Ed.Mediterranee

martedì 4 novembre 2008

lunedì 3 novembre 2008

Energia dalle onde
di Annette Bruhns, traduzione Uwe Wienke

Come trasformare la forza delle onde marine in energia elettrica? In gara ci sono tre concorrenti: il serpente marino, il drago delle onde e la patella. Nessuno sa ancora quale di questi animali meccanici vincerà la gara, ma il premio è alto.
Il World Energy Council (WEC) di Londra stima che il 15 percento del fabbisogno elettrico mondiale potrebbe essere coperto da impianti di sfruttano il moto ondoso dei mari. Questa quantità sarebbe il doppio di quella attualmente prodotta dalle centrali nucleari.
Già da cento anni, gli ingegneri studiano dei metodi con i quali poter sfruttare l’energia dei mari, ma finora l’energia delle onde fornisce energia elettrica solo ad alcune boe in alto mare. L’unica eccezione si trova sulla piccola isola scozzese Isley, abitata da allevatori di pecore e distillatori di whisky. Limpet, “patella”, così si chiama il primo impianto al mondo che sfrutta l’energia delle onde. L’impianto consiste in una struttura di cemento armato ed una turbina che è attaccata, come una patella, appunto, ad uno scoglio, una roccia della costa, ed ha una potenza di 250 chilowatt.


AP La forza delle onde una fonte energetica del futuro? Con la più moderna tecnologia, gli ingegneri tentano di trasformare in energia elettrica.






DPA Centrale Limpet sull’isola scozzese di Islay: La "Patella" è la prima centrale del mondo che sfrutta l’energia delle onde e che immette energia elettrica nella rete con una potenza di 250 kW. La centrale consiste in una struttura di cemento, larga 20 metri, e una turbina che, come una patella su uno scoglio, e attaccata su una roccia della costa.


La “patella” sembra respirare affannosamente. Si tratta dell’aria che entra ed esce dalla turbina. L’apparecchio, installato sette anni fa dall’azienda scozzese Wavegen, trasforma la forza delle onde in aria compressa. Le onde in arrivo penetrano nell’immensa camera di cemento armato e comprime l’aria che si trova al suo interno. Quando l’acqua esce dalla camera, l’aria si espande. La corrente d’aria così generata mette in moto una cosiddetta turbina Wells, inventata dall’ormai defunto ingegnere Alan Wells, fondatore della Wavegen. Questa turbina mantiene la sua direzione di rotazione benché la direzione della corrente d’aria cambi periodicamente.
Limpet è un progetto pilota che, nonostante le sue “malattie infantili” ha avuto così tanto successo che il produttore tedesco di turbine Voith Siemens, due anni fa, ha voluto acquisire la Hydro Power Wavegen.
Gli ingeneri della Voith cercano ora di migliorarne la tecnologia. Oltre alla “patella” originale lunga dieci metri, si sta ora sperimentando con una turbina di tre metri che, con una potenza nominale di 18,5 chilowatt, produce quasi la stessa quantità di energia elettrica che produce la “sorella maggiore”.
La Voith pensa di sostituire in futuro la “patella” più grande con una serie di queste più piccole. Il concetto sembra essere giusto: in Spagna, nei paesi baschi, una società elettrica pensa all’installazione di 16 cosiddette turbine “breakwater” nei nuovi moli del porto di Mutriku. Il progetto, che dovrà produrre elettricità per 200 famiglie, sarà però realizzato solo se potrà beneficiare di un finanziamento dell’Unione Europea.

Wavegen

Turbina: La turbina sviluppata da Alan Wells per la centrale sull’isola scozzese di Islay sfrutta la pressione dell’aria spinta dalle onde. Gira in una sola direzione, nonostante che la direzione del vento cambia periodicamente.

E’ prevista anche una serie di turbine “breakwater”, con una potenza nominale di 3,6 megawatt, da impiantare sull’isola di Lewis nelle Hebridi, commissionata da una società britannica affiliata alla tedesca RWE. Ma anche la società energetica tedesca EnBW sta cercando, congiuntamente alla Voith, un sito adatto sulla costa tedesca del Mare di nord.
Alla Voith sono convinti che la tecnologia “onda-aria” sia molto promettente. “Se non dobbiamo costruire gli onerosi generatori da alto mare e possiamo integrare questi nei nuovi impianti costieri, possiamo essere economicamente imbattibili”; dice il manager Weilepp della Voith. Gli impianti sulla costa non disturbano inoltre la navigazione e la loro manutenzione risulta essere molto più facile e meno costosa rispetto a quelle d’alto mare.
L’ingegnere danese Erik Friis-Madsen è invece del parere che una tale tecnologia non sarà mai in grado di fare concorrenza a quella che sfrutta il vento. “In alto mare, le onde sviluppano un’energia cinque volte maggiore rispetto a quelle in prossimità della costa”. Nel Mare del nord, un’onda sviluppa una potenza che può arrivare a 75 chilowatt al metro, sulla costa, invece, la potenza media di un’onda è compresa tra 5 e 15 chilowatt.
Friis-Madsen sperimenta in alto mare. La sua invenzione si chiama “Drago delle onde”. Ciò che si sta progettando è un vero e proprio mostro: il governo del Galles è disposto ad investire 7,5 milioni di Euro nel “Wave Dragon” che pesa 33.000 tonnellate e ha una larghezza di 300 metri. Il costo complessivo del drago è di 17 milioni di Euro.
Già da tre anni, una versione più piccola del “Wave Dragon” ha dimostrato le sue capacità in un fiordo danese. Il drago funziona secondo il principio della “altezza di caduta indotta dall’onda”: le onde invadono una rampa, l’acqua cade in un serbatoio dove viene raccolta e, ritornando nel mare, aziona un sistema di turbine a bassa pressione.
In futuro, nel Mare celtico si costruirà un intero parco di draghi con una potenza di sette megawatt. Anche in Portogallo è prevista la realizzazione di un simile parco che usa la stessa tecnologia danese. C’è già l’interesse di alcuni investitori, ma manca ancora il grande capitale.
La società Ocean Power Delivery (OPD) di Edinburgh, invece, ha già trovato questi capitali. Le società Norsk Hydro e General Electric sono diventati partner dell’OPD. Per questo motivo, il progetto “Pelamis”, sviluppato dalla società scozzese, potrebbe avere maggiori possibilità di essere realizzato. Si tratta di un impianto del tipo “serpente marino” destinato a funzionare nel mare aperto.

Norsk Hydro
L’impianto "Pelamis" (disegno): il serpente rosso della Scozia produce corrente elettrica usando il principio dell’idrodinamica. Quattro elementi collegati che, insieme, assumono una lunghezza di 150 metri galeggiano perpendicolarmente alla cresta delle onde. I singoli elementi seguono il movimento delle onde.

La tecnologia “Pelamis” è elegante: Il rosso serpente d’acciaio scozzese produce energia elettrica mediante un sistema idrodinamico. Quattro elementi collegati insieme, con una lunghezza complessiva di 150 metri, galleggiano nel mare perpendicolarmente alla cresta delle onde in modo che, i singoli elementi, seguano il moto ondoso. Cilindri idraulici integrati nelle giunture tra gli elementi assorbono il movimento e conferiscono le forze, mediante un sistema idraulico, a sei generatori di elettricità. La potenza complessiva di “Pelamis” è di 750 chilowatt.
Il responsabile per lo sviluppo della OPD, Max Carcas, spiega: “Quando si tratta dell’energia delle onde, quel che conta è il materiale che deve essere impiegato per produrre un chilowattora”. Il serpente marino “Pelamis” pesa 750 tonnellate. Rispetto all’impianto danese, per produrre un decimo di energia occorre solo un quarantesimo del peso.

Norsk Hydro
Prototipo di "Pelamis": Cilindri idraulici integrati nelle giunture tra gli elementi, assorbono il movimento e lo trasmettono, mediante un sistema idraulico, a sei generatori elettrici.

“La più grande prova per un impianto che sfrutti il moto delle onde è la tempesta” , dice Carcas, “o l’impianto si oppone alla massa d’acqua o cede e si adegua”. E “Pelamis possiede proprio questa capacità: non si oppone alle ondate frangenti, ma nella tempesta si immerge nell’onda.
“Pelamis” ha sostenuto il primo test pratico ed ha prodotto elettricità nel clima rigido dell’Atlantico settentrionale davanti alle isole Orkney. Però solo per circa mille ore, ossia per un periodo sensibilmente minore rispetto agli impianti della concorrenza.
I costruttori di „Pelamis“ non amano molto parlare dell’efficienza del loro prodotto, così come anche i tecnici della concorrenza, perché non esiste ancora un metodo standardizzato di valutazione che consentirebbe un confronto. Il rendimento degli impianti è naturalmente inferiore rispetto a quello dei generatori eolici: gli impianti captano solo una parte della forza delle onde della quale solo una piccola parte viene trasmessa alle turbine e ai generatori.
I costruttori di “Pelamis” sono però ottimisti: sono i primi che hanno già potuto vendere alcuni di questi impianti. Un consorzio portoghese, guidato dalla società Enersis, ha acquistato tre “serpenti” per l’ammontare di circa otto milioni di Euro. Questa estate, i tre impianti dovranno essere ancorati davanti a Póvoa de Varzim, a nord del Portogallo.
Se l’operazione dovesse avere successo, l’Enersis pensa ad un contratto per altre 28 macchine che potrebbero formare un parco con una potenza installata di 20 megawatt, sufficiente per l’approvvigionamento di 15.000 famiglie. Anche una società britannica, affiliata di E.on, pensa all’installazione di un impianto che sfrutti il moto ondoso. Poche settimane fa, la Scottish Power ha fatto sapere che costruirà un parco di “serpenti” ad ovest delle Orkney.
L’ingegnere Carcas è anch’egli ottimista: già nel giro di tre o quattro anni, la tecnologia dell’OPD potrebbe competere con i windpark off-shore. E questo non solo dal punto di vista economico: rispetto ai generatori eolici, per la stessa potenza installata, gli impianti che sfruttano la forza delle onde necessitano solo della metà dello spazio necessario a quelli eolici. E questo, in futuro, potrebbe essere un vantaggio decisivo: anche sul mare lo spazio non è illimitato.

Fonte: (Annette Bruhns, Schlange, Drache oder Schnecke?, in: Spiegel Spezial 27.03.2007)
Tratto da: www.miniwatt.it